Nel contesto dell’attuale spostamento di fondi a livello globale dai fondi a gestione attiva verso fondi passivi quali index funds ed ETF, grande attenzione stanno ricevendo gli ETF smart beta che, come vedremo, si vanno a collocare a metà strada tra i fondi attivi e quelli passivi.
I risk factors
Alla base delle strategie smart beta vi è l’osservazione che l’esposizione a particolari risk-factors garantisce sistematicamente migliori rendimenti nel lungo periodo.
Ma che cosa sono i risk factors?
I risk-factors sono determinate caratteristiche dei titoli che contribuiscono a spiegarne il rendimento nel corso del tempo. La ricerca accademica ha evidenziato come alcuni risk factors consentano di conseguire nel lungo periodo un extrarendimento rispetto al mercato.
L’origine del factor investing
Per factor investing si intende una strategia di investimento che mira a catturare gli extrarendimenti garantiti dall’esposizione ai risk factors. Il factor investing ha origini lontane nel tempo.
Negli anni Sessanta, il Capital asset pricing model (CAPM) dimostrò come il rendimento atteso di un’azione dipendesse dalla sua volatilità relativa (misurata dal coefficiente beta), cioè da quanto si muove il suo prezzo in corrispondenza di un determinato movimento del mercato. Un beta più alto esprime una maggiore rischiosità del titolo stesso che viene remunerata da un maggior rendimento atteso. Dunque è un singolo fattore, l’esposizione al mercato, che determina il rendimento di un titolo.
Fama and French, nei primi anni Novanta, presentarono una rielaborazione del CAPM, detta Three-factor model, che introdusse altri due fattori che contribuiscono a determinare il rendimento di un titolo: size e value. Società a bassa capitalizzazione tendono ad offrire un rendimento superiore rispetto a quelle ad ampia capitalizzazione e quelle le cui azioni sono sottovalutate rispetto ai fondamentali (dette value) performano meglio rispetto a quelle i cui titoli sono costosi rispetto al loro valore fondamentale (growth). E’ dunque l’esposizione a questi tre fattori (mercato, size e value), rappresentata non più da uno ma da tre beta diversi, che determina il rendimento di un titolo.
Del resto già Benjamin Graham, il padre del value investing, aveva evidenziato come i titoli i cui prezzi erano convenienti rispetto ai fondamentali (al loro “valore intrinseco”), tendessero a performare meglio del mercato nel lungo periodo.
Dal 1926 ad oggi negli Stati Uniti le società a bassa capitalizzazione hanno sovraperformato quelle a grande capitalizzazione in media del 2.7% annuo mentre i titoli value hanno sovraperformato del 4.8% annuo quelli growth.
In totale la ricerca ha individuato cinque fattori che garantiscono un premio in termini di rendimento nel lungo periodo. Oltre ai già menzionati size e value, vi sono anche momentum, quality e low volatility.
- Size – le società a bassa capitalizzazione sovraperformano quelle a grande capitalizzazione.
- Value – le azioni sottovalutate rispetto ai fondamentali conseguono migliori rendimenti rispetto a quelle costose.
- Momentum – i titoli che accelerano al rialzo tendono a mantenere questa tendenza.
- Quality – le società più solide tendono a sovraperformare quelle più fragili e meno efficienti.
- Volatilità – le azioni meno volatili, oltre a diminuire il rischio del portafoglio, tendono a garantire migliori rendimenti (contraddicendo l’assunto fondamentale della teoria finanziaria che prevede una relazione positiva tra rischio e rendimento).
L’esposizione a questi cinque fattori di rischio ha storicamente consentito di fare meglio del mercato nel lungo periodo. Il dibattito è ancora aperto se tale maggior rendimento sia solo una compensazione per il maggior rischio sostenuto (come potrebbe sembrare per size e in alcuni casi value e momentum) o effettivamente garantiscano migliori risk-adjusted returns.
Naturalmente il fatto che questi fattori abbiano garantito un extrarendimento in passato non garantisce che questo sia vero anche in futuro.
I fattori hanno un andamento spesso discordante. Alcuni possono attraversare periodi anche piuttosto lunghi di sottoperformance mentre altri sono in auge. In particolare, value, size e momentum tendono ad essere prociclici, cioè a performare bene in periodi di crescita economica, mentre quality e low volatility consentono di contenere rischio in fasi di incertezza o di recessione. Detto questo, tentare massimizzare il rendimento derivante dall’esposizione ai fattori tramite un corretto timing di questi, è un obiettivo piuttosto arduo.
I rendimenti dei fattori nell’ultimo decennio negli Stati Uniti
Fonte: ETF trends
Perché il factor investing funziona
E’ lecito chiedersi perché questi fattori hanno garantito un premio di rendimento. A tal proposito vengono avanzate tre spiegazioni.
In primo luogo, come già accennato, i fattori potrebbero funzionare perché effettivamente non sono altro che la compensazione per il maggior rischio sostenuto. La remunerazione del maggior rischio sostenuto potrebbe spiegare la sovraperformance delle piccole società rispetto alle grandi.
In altri casi, gestori soggetti a determinati vincoli di gestione, potrebbero preferire titoli più volatili per ottenere un maggior rendimento e battere il benchmark e questo porterebbe portare a una sottovalutazione dei titoli a bassa volatilità.
Una terza spiegazione risiede nella finanza comportamentale. Secondo tale interpretazione, gli investitori tendono ad affollare titoli particolarmente in voga proiettando anche nel futuro gli alti tassi di crescita che si sono realizzati in passato. Seguendo la massa degli altri investitori, tendono a comprare titoli sopravvalutati o comunque troppo cari determinando così la tendenza dei titoli value, meno costosi, a sovraperformare nel lungo periodo.
Gli ETF smart beta
Da tempo dunque il factor investing costituisce una delle strategie, molto spesso la più importante dei gestori di fondi attivi.
Qual è la novità degli ETF smart beta?
Gli ETF smart beta garantiscono un mezzo liquido e molto meno caro dei fondi a gestione attiva per catturare sistematicamente questi driver del rendimento di un titolo.
Attraverso regole chiare e trasparenti, gli ETF smart beta selezionano e investono in quelle azioni che possiedono una o più delle cinque caratteristiche che garantiscono i migliori rendimenti nel lungo periodo: bassa capitalizzazione (size), sottovalutazione rispetto ai fondamentali (value), tendenza al rialzo (momentum), solidità patrimoniale (quality), bassa volatilità (low volatility) o una combinazione di queste.
L’ETF smart beta dunque sistematizza e rende investibili una o più strategie che si basano su determinati risk factors. L’obiettivo non è quello di replicare passivamente l’indice di riferimento come fa un normale ETF ma bensì di sovraperformarlo o in ogni caso di offrire una prospettiva differente in termini di rischio-rendimento.
In questo senso gli ETF smart beta si pongono all’interno di un continuo che parte dalle strategie di replica puramente passiva di un indice (ETF tradizionali) per arrivare alle strategie che invece mirano a generare alfa (gestioni attive).
In altri post esamineremo più in dettaglio le singole strategie, gli ETF smart beta disponibili sul mercato e il loro utilizzo nel contesto della creazione e della gestione di un portafoglio.